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Il mito di Proserpina

27 ottobre 2010

Non lontano dalle mura di Enna c'è un lago che si chiama Pergo; l'acqua è profonda. Neppure il Caistro sente cantare tanti cigni sopra le onde della sua corrente. Un bosco fa corona alle acque, cingendole da ogni lato, e con le sue fronde fa schermo, come un velo, alle vampe del sole. Frescura donano i rami, fiori variopinti l'umido terreno. Qui la primavera è eterna. In questo bosco Proserpina si divertiva a cogliere viole o candidi gigli, ne riempiva con fanciullesco zelo dei cestelli e le falde della veste, e faceva con le compagne a chi ne coglieva di più, quando Plutone - fu quasi tutt'uno - le vide, se ne innamorò e la rapì. Tanto precipitosa fu quella passione. Atterrita, la divina fanciulla si mise a chiamare con mesta voce la madre e le compagne, ma soprattutto la madre, e poiché si stracciò l'orlo superiore della tunica, questa si allentò e i fiori raccolti caddero per terra: e tanta semplicità c'era nel suo cuore di vergine, che anche la perdita dei fiori le causò dispiacere. Il rapitore lanciò il cocchio incitando i cavalli, chiamandoli ciascuno per nome, scuotendo sui colli e sulle criniere le briglie dal cupo colore di ruggine; passò veloce sul profondo lago, sugli stagni dei Palici, tra le esalazioni dello zolfo che erompe dalla terra e li fa ribollire, e per il luogo dove i Bacchiadi - originari di Corinto bagnata da due mari - avevano eretto le loro mura tra due porti di disuguale grandezza.
C'è, fra la fonte Ciane e la fonte Aretusa che viene dall'Elide, un tratto di mare che sta raccolto e racchiuso tra due strette lingue di terra. Qui appunto viveva - e da lei prese il nome anche quella laguna - Ciane, famosissima fra le ninfe della Sicilia. Dal centro dei gorghi essa emerse fino alla vita, riconobbe la fanciulla divina e disse: "Non passerete! Non puoi diventare genero di Cerere se Cerere non acconsente. Chiedere la dovevi, e non rapire. E se posso paragonare le cose grandi alle piccole, anch'io sono stata amata, da Anapi, ma mi sono sposata dopo essere stata pregata, e non, come costei, terrorizzata". Così disse, e allargando le braccia cercò di fermarli. Il figlio di Saturno non trattenne più la sua rabbia, e incitati i terribili cavalli, con braccio vigoroso tuffò lo scettro regale fino in fondo alla laguna. A quel colpo un varco si aprì nella terra fino al Tartaro e il cocchio sprofondò e scomparve nella voragine. Quanto a Ciane, addolorata per il rapimento della dea e perché la sua fonte era stata disprezzata e violata, si portò in silenzio dentro di sé una ferita di cui nessuno poteva consolarla: si strusse tutta di lacrime e si dissolse in quelle acque delle quali fino a poco prima era stata una grande divinità. Avresti visto le sue membra ammollirsi, le ossa flettersi, le unghie perdere durezza; e prima di tutto si liquefecero le parti più fini: i capelli azzurri, le dita, i piedi e le gambe. Più facile è infatti, per le parti sottili, trapassare in gelida acqua. Poi furono le spalle, il dorso, i fianchi, il petto ad andarsene, fino a svanire, in esili rivoli. Infine l'acqua subentrò al sangue vivo nelle vene in disfacimento, e non rimase più nulla che si potesse afferrare.
Intanto Cerere, angosciata, cercava invano la figlia, per ogni terra, per ogni mare. Nè l'Aurora, quando arrivò con i suoi capelli rugiadosi, né Vespero le videro mai riposarsi. Essa accese alle fiamme dell'Etna due torce di pino, e tenendone una in ciascuna mano vagò senza requie nella notte brinosa. Poi il giorno vivificatore rifece impallidire le stelle: essa continuava ancora a cercare la figlia, da ponente a levante. Sfinita dalla fatica era tormentata dalla sete - a nessuna fonte si era rinfrescata le labbra -, quando per caso vide una capanna dal tetto di paglia. Bussò alla piccola porta. Ed ecco: una vecchia venne ad aprire, si trovò davanti la dea, e sentito che voleva dell'acqua le dette una bevanda dolce con polenta arrostita inzuppata. Mentre la dea beveva quello che le era stato offerto, un fanciullo sfacciato e insolente le si piazzò dinanzi, scoppiò in una risata e la chiamò ingorda. Si offese, la dea, e senza neppure finire di bere gli tirò addosso - egli ancora parlava - il liquido con la polenta. Il volto assorbendolo, si cosparse di chiazze, al fanciullo; se prima aveva le braccia, ora le portò come zampe; alle membra trasformate si aggiunse la coda. E la sua figura, perché non potesse essere troppo nocivo, si contrasse e si rimpicciolì. Divenne un rettile più piccolo di una lucertola piccola. La vecchia assisteva stordita al prodigio, e piangeva, e faceva il gesto di toccarlo: egli fuggì in cerca di un nascondiglio, e si ebbe un nome appropriato alla pelle, avendo il corpo costellato di chiazze.
Troppo lungo sarebbe dire per quali terre e per quali mari la dea errò. Non aveva più mondo da girare. Ritornò in Sicilia, e mentre camminava scrutando per ogni dove, arrivò anche da Ciane. Costei, se non si fosse ormai trasformata, le avrebbe raccontato tutto, ma per quanto volesse parlare non aveva nè bocca né lingua, non aveva piú nulla con cui articolare parole. Ciò nonostante fornì un chiaro indizio, mostrando sul pelo dell'acqua la cintura - ben nota alla madre - che per caso proprio in quel punto era caduta a Proserpina nei sacri gorghi. Appena riconobbe la cintura, la dea, come se solo allora capisse che la figlia era stata rapita, si stracciò i capelli disadorni e ripetutamente si percosse il petto con le mani. Non lo sapeva ancora, dove fosse; comunque, inveì contro tutte le terre chiamandole ingrate e indegne del dono delle messi, soprattutto la Trinacria, dove aveva scoperto la traccia della disgrazia. E li spezzò allora con mano crudele gli aratri che rivoltano le zolle, e furibonda fece morire insieme contadini e buoi campagnoli, comandò ai campi di tradire le speranze in essi riposte, e guastò i semi. La fertilità di quella regione, decantata in tutto il mondo, è smentita e distrutta: le messi muoiono appena germogliano, ammalandosi per troppo sole o per troppa pioggia, gli astri sfavorevoli e i venti le rovinano, gli uccelli ingordi beccano i semi nei solchi; il loglio e i rovi e la gramigna inestirpabile soffocano il frumento.
Allora Aretusa, amata dall'Alfeo, trasse fuori il capo dalle sue acque giunte dall'Elide, si scostò dalla fonte verso gli orecchi le chiome stillanti, e disse: "O genitrice della vergine cercata per tutto il mondo, o genitrice delle messi, interrompi la tua immensa fatica e non adirarti e non essere violenta col suolo, che ti è fedele. Il suolo non ha nessuna colpa e per forza ha dovuto aprirsi davanti al rapitore. E non è che io ti supplichi per la mia patria: io non sono di qui; la mia patria è Pisa, nell'Elide, e di laggiù provengo. Straniera sono, in Sicilia; ma questa regione mi è più cara di ogni altra: qui io Aretusa ho ora la mia casa, questo è il mio paese: e tu salvalo, mitissima dea. Perché io mi sia trasferita, perché, superando una così grande distesa di mare, io mi sospinga fino qui ad Ortigia, lo narrerò in un momento più opportuno, quando tu non sarai più così afflitta ed avrai un volto più sereno. Per farmi passare, la terra mi schiude un cammino, io scorro in caverne dentro le sue profondità, e qui levo fuori il capo e rivedo le stelle quasi dimenticate. Orbene, passando sotterra tra i gorghi dello Stige, ho visto laggiù, con i miei occhi, Proserpina: triste, sì, e ancora con l'aria un po' spaventata, e tuttavia regina, signora del mondo buio, potente consorte del sovrano dell'Averno.
All'udir queste cose la madre restò di sasso, rimase a lungo come paralizzata. Quando finalmente il tremendo stordimento passò, scacciato dal tremendo dolore, partì sul suo cocchio per le regioni del cielo. Lì, tutta rannuvolata in volto, piena di odio, si parò con i capelli scomposti dinanzi a Giove e disse: "Vengo a pregarti, Giove, per il sangue mio nonché tuo. Se io madre non conto nulla, commuoviti comunque per tua figlia: e spero che il fatto che l'abbia partorita io non t'induca a curartene di meno! Ecco che dopo tanto cercare l'ho ritrovata, se chiami ritrovare il perdere con più certezza, o se chiami ritrovare il sapere dove sia finita. Che sia stata rapita, pazienza! Purché lui la renda! Tua figlia non può infatti sposare un predone, anche se per caso come figlia mia lo potesse!" Rispose Giove: "Tutti e due siamo legati da affetto e senso di responsabilità a questa figlia. Ma se vogliamo dare alle cose il loro vero nome, qui non si tratta di un'impresa malvagia, ma proprio di amore, e io non mi vergognerò di un genero così, naturalmente se tu acconsenti, o dea. Anche se gli mancasse il resto, che titolo essere fratello di Giove! Ma il resto poi non gli manca, e se mi è inferiore, è solo per il regno che gli è toccato in sorte. Comunque, se desidero tanti che si separino, Proserpina tornerà a vedere il cielo, ma ad una condizione ben precisa, che laggiù non abbia portato alla bocca nessun cibo. Così infatti hanno stabilito le Parche. Così disse. Ma se Cerere era decisa a recuperare la figlia, questo il destino non lo permetteva, poiché la fanciulla aveva rotto il digiuno: nella sua semplicità, mentre si aggirava per un bell'orto, aveva colto da un ramo incurvato una melagrana e, staccatili dalla pallida buccia, ne aveva succhiato sette granelli. L'unico a vederla fu Ascalafo, che a quanto si racconta era stato partorito nel folto di una tetra selva da Orfne - non certo la più sconosciuta tra le ninfe dell'Averno -, la quale lo aveva avuto dal suo diletto Acheronte. La vide e fece la spia, togliendole così, crudele, la possibilità di tornare. Mandò un gemito la regina dell'Erebo, e fece del delatore un uccello di malaugurio: gli versò acqua del Flegetonte sul capo, e glielo mutò in una testa con becco, piume e occhi come fanali. Quello, sottratto alla sua propria forma, si avvolse in ali fulve come in un manto, s'ingrossò nella testa, piegò in dentro le unghie allungatesi, e a fatica agitò le penne spuntategli sulle fiacche braccia. Diventò un uccellaccio, messaggero di prossima sventura, un pigro gufo, terribile presagio per i mortali.
Costui, comunque, a quanto pare, si era meritato la punizione parlando troppo e facendo la spia. Ma voi, o figlie dell'Acheloo, com'è che avete penne e zampe da uccelli mentre portate visi di fanciulle? Forse perché, quando Proserpina raccoglieva fiori primaverili, eravate, dotte Sirene, nel numero delle sue compagne? Dopo che invano l'aveste cercata per tutta la terraferma, ecco che, perché anche il mare sapesse quanto eravate angosciate, esprimeste il desiderio di potervi soffermare sopra i flutti remigando con delle ali, e trovaste gli dei ben disposti, e tutt'a un tratto vi vedeste gli arti farsi biondi di penne. Tuttavia, perché al vostro famoso canto, fatto per ammaliare le orecchie, perché alla vostra bocca, così dotata, non venisse a mancare la favella, vi rimasero volti di fanciulle e voce umana.
Quanto a Giove, facendo da mediatore tra il fratello e l'afflitta sorella, divide il giro dell'anno in due parti uguali: ora Proserpina, una divinità comune ai due regni, sta tanti mesi con la madre e altrettanti con il marito. E subito essa cambia, di spirito e d'aspetto: se fino a poco prima poteva apparire troppo cupa perfino a Plutone, ora sulla fronte le brilla la gioia; così il sole, già coperto da nubi piovose, si affaccia tra le nubi, vittorioso.
Ovidio, Le Metamorfosi, libro V


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