Lo Zen non è propriamente una religione; è, insieme a una dozzina di altri, uno dei rami principale dell'albero buddistico. Lo Zen non è nemmeno una filosofia, almeno nel senso in cui l'intesero prima i greci e poi i tedeschi. Lo Zen sarebbe piuttosto una forma di pensiero o, meglio, un modo di pensare che determina un certo modo di agire.
Uno dei tratti originali di questo ramo buddistico è il fatto che sia anche alimentato dalla linfa del taoismo. Lo scopo principale di questa antica religione cinese è liberare l'uomo dal peso delle regole e delle convenzioni che la società impone e fargli ritrovare la meravigliosa spontaneità del bambino, ossia la sua natura iniziale, il suo essere originario, la sua essenza stessa. Un progetto che coincide con quello dell'adepto dello Zen, alla ricerca del suo io più profondo.
Il principio sul quale si basa è estremamente semplice: secondo la dottrina buddistica, ogni creatura racchiude in sé una natura-di-Buddha - espressione che si potrebbe tradurre, in termini di cristianesimo, con particella di divinità o, facendo riferimento al pensiero indiano per prendere in considerazione qualcosa di più vicino a noi, una scintilla generata dal grande fuoco universale, focolare da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna. Soltanto che l'uomo non lo sa, ed è precisamente qui che iniziano le difficoltà.
Come prendere coscienza di questa natura-di-Buddha che è nascosta nell'intimo di noi stesi? Per fare questo, per giungere al Risveglio, tutti i mezzi sono validi, ivi compresi i più stravaganti. La via che il monaco Zen segue solitamente è tripla: dialoghi disorientanti con il maestro, lunghe sessioni di meditazione in posizione seduta e, inoltre, attività manuali, in quanto bisogna parimenti esercitarsi con il corpo.
Gli uomini che, in Cina, dal VI al IX secolo, forgiarono lo Zen, furono degli eccentrici, se non addirittura dei contestatori. L'arte è uno degli aspetti che rimisero in discussione, e alcuni di essi furono persino degli iconoclasti. Un atteggiamento analogo lo si ritrova in Giappone, dove lo Zen si radicò nel XIII secolo. Fino all'epoca di Muromachi (1338-1573), l'arte buddistica giapponese si esprimeva essenzialmente attraverso la scultura e la pittura. Ma, non apprezzando affatto l'idolatria, i monaci Zen rifiutarono le immagini religiose. Tributare un culto a degli oggetti e recitare dei sutra in loro onore erano, per i monaci Zen soltanto atti superficiali che non coinvolgevano l'essere nella sua interezza. In campo artistico, privilegiarono il giardino come mezzo di espressione. Quale ragione dettò questa scelta?
Nei suoi Dialoghi in sogno, Muso Soseki ha scritto: "Di chi fa una distinzione tra il giardino e l'ascesi, non si può dire che abbia trovato la vera Via". Il grande monaco intendeva dire con questo che costruire un giardino è un modo di praticare lo Zen. Una tale asserzione implica l'esistenza di stretti legami tra l'arte dei giardini e la ricerca della verità.
Nei giardini dell'epoca di Heian (794-1185), tutti gli elementi disponibili erano messi in opera: alberi, erbe e fiori, sabbia, pietre e acque; anche gli uccelli e i pesci contribuivano a comporre il quadro. Inoltre, si preferivano gli alberi a foglie caduche, le cui dorme e colori variavano col susseguirsi delle stagioni: i fiori si schiudevano in primavera, il fogliame verdeggiava in estate, poi rosseggiava in autunno e i rami si spogliavano in inverno. Grazie all'eterna ronda delle stagioni, tali giardini traducevano il dogma buddistico del ciclo incessante delle nascite; e mostravano anche il carattere effimero di questo mondo in cui tutto cambia continuamente.
I giardini Zen dell'epoca Muromachi sono frutto di una concezione molto diversa. Una delle loro caratteristiche è la stretta limitatezza dei materiali: si impiegano soprattutto la pietra e la sabbia, talvolta alcuni vegetali, all'occorrenza arbusti a crescita lenta e a foglie persistenti di modo che questi giardini quasi immutabili risultano come ancorati nel tempo. I giardini dell'epoca Heian riflettevano le vicissitudini della vita umana. I monaci Zen hanno rifiutato i fenomeni transitori, le apparenze illusorie; hanno svestito la natura per rivelarne la sostanza; i loro giardini spogli esprimono l'essenza universale.
Secondo lo Zen, non si può accedere alla conoscenza suprema studiando una dottrina per via analitica; bisogna procedere in maniera intuitiva e diretta. È questo il senso di una massima attribuita a Huike, il secondo patriarca dello Zen: "Puntando direttamente al cuore umano, cogliere la sua natura originaria e giungere al Risveglio". Si può così "giungere al Risveglio" - comprendere cioè la verità ultima - tramite gli oggetti naturali. È importante allora spogliare la natura della sua scorza, eliminare tutto ciò che può essere tale. Riducendo la natura alle dimensioni minime e riportandola alla sua espressione più semplice, si riesce a estrarne l'essenza. Ed è cogliendo l'essenza della natura che l'uomo può scoprire in sé la sua "natura originaria". Ecco perché i monaci Zen "scorticarono" la natura, prendendone in considerazione soltanto la pietra, la sabbia e alcune piante. Così i giardini che costruirono presentavano loro un'immagine dell'universo in una forma ridotta agli elementi essenziali, nella quale potevano ravvisare la loro fisionomia.
Questi giardini ebbero anche un ruolo nella pratica dello Zen. Uno dei mezzi che i maestri utilizzavano per aprire gli occhi ai loro discepoli è il koan, una sorta di enigma apparentemente stupido che si può risolvere soltanto per assurdo. C'erano anche koan pittorici.